I moltissimi dolci del Natale (nella penisola i più celebri sono il pan-ettone, il pan-doro e il pan-forte) sono ciò che resta dei pani rituali di antichissima memoria: un modo per celebrare la vita tramite la simbologia del pane di vita, ma anche un momento di comunione con i morti -da intendersi come gli Antenati, spiriti benevoli che vegliano sulle persone di oggi, e non come le anime dannate che seguono Odino nella Caccia selvaggia che imperverserà a breve, durante i Dodici giorni- attraverso i pani in forma umana. Tanta roba? Sotto vi spiego tutto!

Il grano e il forno. Il chicco di grano, un seme, ha in sé tutto ciò che serve per dare la vita a una nuova pianta ed è questo potenziale che viene intercettato e immagazzinato nel pane.
Il pane è l’alimento sacro di quelle culture che hanno scelto di sostentarsi attraverso l’agricoltura, di essere sedentarie e fondarsi sulla collaborazione. Il pane mette in gioco, infatti, una serie di mansioni e conoscenze diverse partendo dal campo, passando per il mulino, giungendo al forno: la mano umana coltiva e lavora le piante -in questo caso, il grano- ma il divino interviene nella magia della trasformazione (attraverso quelle che erano i misteri della lievitazione e fermentazione).
Nelle occasioni di festa era abitudine dargli una forma particolare -connessa alla celebrazione del momento- dando al pane il valore di sacralità, di cibo come comunione con la divinità. Un’entità sovrannaturale che, a partire dal Neolitico (quando il forno era presente anche nel tempio), è stata identificata con la femminilità e il focolare: la scoperta dell’agricoltura, attribuita storicamente alle donne, e associata nel mito ai doni di Demetra.
Per approfondire puoi leggere Dea del grano, dea del pane.

Forma antropomorfa. Ieri il pane e oggi i biscotti, con questa formula potremmo esprimere bene l’evoluzione dei pani rituali: tavole e altari venivano decorati con pani particolari durante le festività (nel Nord Europa le pagnotte di Natale più celebri avevano forma di maiale, di spirale o ruota; alle nostre latitudini sono i pani tondi e quelli antropomorfi a essere più diffusi). La preparazione di questi pani, noti con il termine di showbread, era ritualizzata: la padrona di casa poteva ad esempio impastarli utilizzando tutti i semi delle colture dell’anno a venire, conservandone alcuni dopo la cottura per ridurli in briciole e spargerli nei campi a primavera per garantire la fertilità della terra. Come non pensare all’usanza milanese di conservare una fetta di panettone da mangiare il 3 febbraio, scongiurando così i malanni invernali? O alle ceneri del Ceppo natalizio da disperdere all’Epifania?
Altri pani venivano donati ai poveri che facevano questua nei giorni di festa e altri erano lasciati fuori casa per gli spiriti… I pani, soprattutto quelli in forma umana -di cui oggi i biscotti come i Gingerbread Men sono gli eredi più noti- avrebbero chiuso in un qualche modo il cerchio dei rituali agricoli mettendosi in comunione con la divinità o gli antenati che avevano collaborato con gli umani nel processo di coltivazione. Il pane antropomorfo è e non è umano, così come non lo sono i morti, né i personaggi del folclore natalizio e delle maschere che costellano l’inverno europeo…
Per saperne di più puoi leggere delle maschere natalizie, dell’usanza del ceppo natalizio e del nostro pane di Natale, il panettone.

Il pane e il calendario. Già perché, paradossalmente dopo tutto questo parlarne, in realtà il pane non era un alimento abbondante in inverno. Alle nostre latitudini questo era il tempo della polenta, nella stagione fredda era difficile conservare la farina e il pane era perciò tanto scarso quanto prezioso… impossibile che non diventasse un cibo della festa.
La farina che tornava a essere disponibile nella bella stagione, rendeva il pane un alimento calendariale che segnava il periodo estivo: un marcatore stagionale come piante e animali che ancora abitano il calendario tradizionale (l’orso e il serpente primaverili, il cervo autunnale, l’alternanza tra l’estiva quercia e l’invernale agrifoglio o, analogamente, tra vite ed edera).
Gli showbread natalizi venivano investiti del sacro potere del solstizio d’inverno, assorbendo la forza del momento in cui la luce ritornava al mondo, diventando simboli di vita sopravvissuta al buio invernale e trasferendo perciò questa loro essenza alla terra, allo spirito particolare a cui venivano sacrificati, ai convitati che lo consumavano in un pasto comune.
Che poi, forse, è il senso più genuino del Natale per come lo intendiamo ancora oggi, no?

Qui puoi leggere qualcosa in più sul solstizio d’inverno. Qui invece approfondire la figura dell’orso, del serpente e del cervo.
Ma anche della simbologia di quercia e agrifoglio, edera e vite.

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Già nella sesta novella dell’ottava giornata del Decamerone si parla del gengiovo in riferimento alla manifattura dolciaria della Firenze medievale e oggi noi tendiamo ad associare immediatamente tale alimento ai Gingerbread Men, gli omini di pan di zenzero di tradizione anglosassone. Conosciuto e utilizzato già da Greci e Romani, il pan di zenzero sembra essere nato in Armenia, giunto in Europa attraverso la rete dei monasteri verso l’anno Mille, per diffondersi poi in tutto il continente. L’origine degli omini è invece più misteriosa (il pan di zenzero si prepara anche in altre festività come Halloween, e Pasqua, ma in differenti forme): pare che la regina Elisabetta I d’Inghilterra, nel Seicento, prese l’abitudine di regalare agli ospiti dei suoi banchetti natalizi questi biscotti di forma umana. Solo nel 1875 venne pubblicata la fiaba che aveva per protagonista il Gingerbread Boy che decretò per sempre il successo del personaggio.

Ma voi conoscete la fiaba dell’omino di pan di zenzero?

Si narra che un giorno, ad una vecchietta intenta a preparare dei biscotti, sfuggì dal forno un omino di pan di zenzero. Correndo nel cortile, il biscotto sfuggì all’anziano marito della donna che voleva mangiarlo. Corse verso il porcile, dove anche i maiali cercarono di papparselo. Vicino alla casa scampò per un pelo alla fauci di un cagnaccio affamato e poi, credendo di essere al sicuro in un prato, quasi venne divorato da una mucca.
L’omino di pan di zenzero raggiunse infine il fiume e qui incontrò una volpe. Il biscotto si mise subito sulla difensiva: “Sono sfuggito a così tanti pericoli oggi che non ho paura di te!”. Ma la volpe non era assolutamente interessata a lui. S’informò sulle sue intenzioni e guardò pensierosa il fiume, quando l’omino di pan di zenzero disse che voleva attraversarlo.
“Ma così t’inzupperai tutto!” disse la volpe al biscotto. L’omino non sapeva che fare. “Pensavo di fare una nuotata, oggi… Potresti salirmi in groppa e arrivare dall’altra parte!” aggiunse la volpe. Il biscotto non ci pensò su e saltò sulla coda della volpe.
Una volta nel fiume, il livello dell’acqua iniziò ad alzarsi. L’omino di zenzero si arrampicò sulla schiena della volpe, poi sulla sua testa, quindi sul naso e infine… La volpe “Gnam!” se lo mangiò così in un solo boccone.
Non conoscevo questa storia, quando l’ho cercata… ci sono rimasta molto male! Che dire, è il classico finale di una favola nordeuropea! XD
Per tutti questi motivi, mi sento di consigliarvi di collocare il vostro Gingerbread Man sul ramo più altro dell’albero di Natale!!!