Il punk e l’handmade
Dopo la parentesi dedicata alle bambole stregate e il famigerato Halloween, ho pensato di lasciarti qui la seconda puntata di quelli che avevo immaginato essere 3 video per Instagram per raccontare un po’ le sfaccettature di Babacio… Il primo episodio, dedicato al Giappone, era nella newsletter di settembre; se per caso vuoi recuperarla, scrivimi pure! Oggi, in maniera del tutto illogica (ma chissenefrega), il tema è il Punk.
Ci siamo lasciati con l’immagine, anche un po’ triste, di me che nella mia cameretta -al massimo in compagnia della migliore amica di sempre, quella Leonora che ogni tanto sbuca nei miei post e social- leggo i miei adorati manga. Più o meno nello stesso periodo adolescenziale, che poi è quello che un po’ ci forma per la vita, ho anche smesso di ascoltare musica di mer… ehm, discutibile e ho iniziato a formare una cultura musicale decente. Questo ovviamente per te è opinabile se, come molte delle persone che mi circondavano all’epoca, pensi che il punk faccia schifo. Non sono qui per farti cambiare idea (“Non me ne frega un ca**o dei tuoi gusti musicali dimme**a” se vogliamo essere punk fino in fondo), ma -sinceramente- credo che ognuno sia libero di ascoltare quello che vuole, in base ai propri gusti e sensibilità… l’età in cui si pensa, dalla base di non si sa bene cosa, di dover convincere gli altri di essere quelli che ascoltano la musica migliore è passata, almeno per me, da un bel pezzo.
Premetto che, da adolescente scorbutica e poco avvezza alla socialità, ho sempre dato grande importanza della musica: non tanto per il messaggio che questa poteva veicolare (“E grazie al ca**o, con quella me**a che ascolti, cosa vuoi veicolare?!” sempre per dare voce al punk che è in me), ma proprio per la compagnia… non ricordo di essere mai stata in cameretta con lo stereo spento. Solo quando leggevo non c’era musica.
Dopo, si diceva, alcune scelte discutibili di musicisti -che non riferirò per orgoglio- nella mia adolescenza irruppe il brit-pop. I primi soldi spesi in musicassette (eh sì… ho una certa età) erano stati devoluti al reparto musicale del Carrefour di Pinerolo. Raga, il reparto musica del supermercato è veramente da boomer. Ad ogni modo, lì tra le corsie m’imbattei in Be Here Now degli Oasis: non propriamente punk, ma il rock aveva segnato il punteggio. Dopo qualche tempo iniziai a interessarmi al panorama inglese, era sempre l’era boomer in cui c’erano le riviste musicali in edicola… Ma, insomma, la musica cominciò a significare per me apertura sul mondo e, in un secondo momento, storia del costume. Mi mancava il punk come attitudine alla vita, ma quello arrivò per i miei diciotto anni, quando i cugini più grandi mi regalarono un disco dei Sex Pistols.
Qual è la first reaction di un ascolto dei Sex Pistols se non shock?! Eppure… eppure c’era in quello schifo voluto, ricercatamente fastidioso, cacofonico, irritante, dichiaratamente menefreghista… qualcosa che mi ha preso il cuore e che non mi ha più lasciata. Pensavo fosse la rabbia adolescenziale, credevo fosse il fascino dell’anticonformismo. Poi, crescendo, ho capito che se arrivi dalla provincia e hai un fratello disabile, forse sei giustificato ad essere un po’ più inca**ato di chi scrive i suoi problemi alla posta di Cioè. Su le mani chi si ricorda cos’era Cioè.
E poi? Poi, niente… ho fatto quello che so far meglio: ho imparato tutto quello che c’era da imparare sui Pistols e Vivienne Westwood, ho dato un senso al mio essere quasi perennemente “bastian contrario” e ho scoperto una possibile carta vincente nell’handmade. Non nel senso di cucito creativo, che è quello a cui -giustamente- stai pensando se sei qui, ma proprio una filosofia più profonda e un approccio alla vita: io questa tal cosa, se non ce l’ho, me la faccio; e se non la so fare, m’invento il modo per farla.
Ho passato la vita a dirmi che “il lavoro che voglio fare non esiste, come faccio?” ma è stato un disco dei Sex Pistols a ricordarmi che “se non esiste, lo invento io”.
(E se questo non ti piace, non me ne frega un fo**uto ca**o).
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