C’è una roccia, in Val Pellice, che porta un nome piuttosto curioso: Roccha Filera, ossia la roccia da cui si fila. Chi vive da queste parti la conosce anche come Roccha d’la fantina, la roccia della fata e… sì, questo luogo è proprio il teatro di una delle più celebri leggende della valle!
Se vi va, dato che sono nata nei paraggi, vi racconto la sua storia…
Le fantine. Ricordate che le fate del folclore valdese hanno un nome tutto loro? Esatto, sono le fantine! Le descrizioni fisiche che le riguardano non sono unanimi: in alcune leggende risultano essere delle piccole creature bianco vestite, in altre sono simili agli esseri umani e talvolta si legano sentimentalmente a loro. Quello che le contraddistingue, di sicuro, dalle altre fate alpine è che le nostre sono straordinariamente… concrete. Anche se affascinanti e dotate di uno spirito elevato, non hanno davvero nulla di etereo (a differenza delle colleghe dolomitiche, ad esempio) ma anzi, passano per essere delle gran lavoratrici, attente ai loro affari e dedite alla pastorizia e alla vita in alta montagna. Insomma, una vera trasposizione fantastica della popolazione montanara valdese dei secoli addietro!
La leggenda. Questa storia è davvero rinomata in Val Pellice e compare in tutte le antologie leggendarie e nelle guide turistiche dedicate alla zona (di meglio hanno fatto solo le Fate del Pra, che si sono aggiudicate addirittura una canzone: puoi leggere e ascoltare il canto tradizionale sul sito del progetto mio e di Leonora Camusso, dal nome Valdesina).
Ma torniamo alla Roccha Filera. In una notte specifica dell’anno, che in alcune versioni risulta essere quella di San Giovanni*, una figura misteriosa, bianca e ossuta, si direbbe nuda, si sporge dall’alto, un piede appoggiato alla vicina roccia imponente, l’altro a un enorme albero di noce, e inizia a filare una matassa di lana, anch’essa bianca.
Pian piano un lungo filo si dipana dalla lana grezza e comincia a scendere lungo la roccia attraverso le mani esperte della fata. Alle prime luci del mattino, la creatura fatata ritira il lavoro, riavvolge il gomitolo ottenuto e scompare nel nulla fino all’anno successivo.
Si dice che se si fosse passati sotto la roccia con la fata intenta nel suo lavoro, riuscendo a toccare il magico filo, se ne sarebbe ottenuta un’immensa fortuna.
Il significato. La descrizione della protagonista di questa leggenda ci porta con il pensiero a quella che doveva essere la personificazione paleolitica della Morte, detta eloquentemente Bianca Signora. Di solito si parla di civiltà, di presenza di pensiero umano, a partire dalle sepolture di Homo sapiens: dobbiamo renderci conto che questa è la realtà delineata da concezioni accademiche superate, che immaginavano la linea evolutiva umana come una retta unica che dalla scimmia giungeva a noi. La pericolosità di questo pensiero, che -ripeto- è stato smentito dagli studiosi stessi, è che si consideri la nostra come la miglior evoluzione possibile, a discapito di tutte le altre traiettorie che il sentiero umano ha intrapreso. In effetti, essere qui oggi non sembra essere prova di eccellenza della nostra specie, quanto piuttosto di una grandissima botta di fortuna, ecco.
Cosa c’entra questo con la fantina che fila? Noi consideriamo, perché così c’insegnano i libri di storia, che è Umano celebrare i morti (tramite riti funebri che manipolano il cadavere, come seppellimento, cremazione, imbalsamazione etc.), ma che è Animale lasciare il corpo dei defunti a se stesso, quasi come se si trattasse automaticamente di un abbandono disinteressato. Ci sono però alcune culture che prevedono, nelle loro usanze, che il cadavere venga lasciato agli elementi, perché la natura faccia su di esso il suo corso; può sembrare una pratica barbarica, ma lo è ai nostri occhi moderni occidentali… in una cultura animista, ad esempio, si tratterebbe più probabilmente di un ritorno del defunto alle cose del mondo e della terra, in un circolo di vita ininterrotto. Se i nostri avi, prima di acquisire l’usanza di maneggiare le salme nel tentativo di codificare la Morte, avessero praticato l’abbandono dei defunti (cosa piuttosto probabile), ciò che ne avrebbero ritrovato in seguito sarebbero state solo le ossa. Da qui, l’idea piuttosto fondata, che la prima personificazione dell’Assenza di vita fosse una figura femminile, come quella che la vita la donava, ma nella sua versione più terribile e concreta.
Bianca e ossuta.
Questo è quanto si può ragionevolmente dire sull’aspetto della fata. Sulla sua attività di filatrice avevo già scritto altrove come, secondo altri popoli del passato, la vita degli umani dipendesse da un filo custodito da divinità femminili (Moire per i Greci, Parche per i Romani e Norne per i Norreni): la parola fatum a Roma indicava il destino, ma per esprimere la sorte assegnata a ciascuno di noi si usava il plurale ossia, fata; dalla credenza diffusa in queste divinità filatrici del destino deriva l’espressione “vita appesa a un filo”.
Si trattava, per gli antichi, anche di una metafora della vita: dal groviglio della matassa di lana vergine -simbolo dell’indistinto, della vita prima della nascita- si otteneva, per mezzo della filatura e dal fuso che ruota (in una tensione mai risolta tra vita e morte) il filo, lineare e distinto, immagine simbolica del vivere di ognuno di noi. La filatura era il simbolo dell’esistenza umana che si sviluppa secondo una linea che seleziona, fra tutte le possibili, una sola e inesorabile via. La donna al fuso diventa presto la filatrice di vita e quella della leggenda potrebbe essere tanto un residuo culturale alpino più antico del previsto, quanto un archetipo potente che ha trovato un insolito, quanto accogliente, luogo d’adozione.
*Questa versione, nonostante risulti essere la più nota grazie a un’antologia degli anni Settanta, è in realtà la somma delle due testimonianze scritte più vecchie del repertorio valdese, entrambe di fine Ottocento-inizio Novecento: in una la fata appare più come una vecchia ma si menziona la notte di San Giovanni, l’altra cita il noce ma colloca il fatto sovrannaturale nella notte di Natale (che poi è il doppio invernale della notte solstiziale estiva).
Per approfondire.
La leggenda della Roccha d’la fantina raccontata da Valdesina.
La famosa leggenda della Val Pellice sulle fate del Pra.
Non solo fate, ma negli stessi luoghi anche gli stregoni del Vengie!
Per il folclore locale: un articolo sulle fantine, ovvero le fate.
E uno sulle masche, le streghe delle vallate piemontesi.
Per saperne di più sulla figura della Filatrice di vita.
Ndr. Le immagini della grotta non si riferiscono alla Roccha Filera ma alla non troppo distante Guieiza d’la Tana (sede di numerose curiosità); entrambi i luoghi si trovano comunque lungo il corso del torrente Vengie e potrebbero avere una comune origine. Ho usato queste foto per la suggestione del posto!
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