Abbiamo visto con il calendario dell’avvento dello scorso anno che i giorni di dicembre erano segnati in moltissime culture diverse dalle celebrazioni per il rinnovamento annuale, spesso concepito come nascita, morte e rinnovamento di qualche figura divina. I riti dicembrini di Bona Dea avevano valore iniziatico: veniva offerta una nuova vita alle donne che lo celebravano e che con essa condividevano il divino attraverso il contatto diretto e successivo delle sue tre epifanie: il vino di vigna, il legno di mirto e il serpente rigenerante. Il divino femminile si presenta in natura sotto diversi aspetti, ma nei riti officiati da donne sembrano mancare gli elementi sanguinari dei sacrifici compiuti da caste sacerdotali maschili.
In cosa consisteva il rituale. Quello reso a Bona Dea è un tipo di culto misterioso almeno quanto lo era la figura divina a cui era indirizzato, a cominciare dal fatto che non ci è pervenuto neppure il suo nome. Disponiamo di notizie frammentarie poiché anche se agli uomini era strettamente proibito partecipare e assistere, le informazioni che ci sono giunte sono tutte di penne maschili (che giudicavano davvero bizzarro quello che riportavano, non comprendendone il significato).
Sappiamo che le matrone romane si riunivano presso la dimora di un console o di un pretore nella notte tra il 4 e il 5 dicembre per celebrarne i riti e una sala veniva allestita con rami freschi tra i quali era rigorosamente escluso il mirto; al centro di essa troneggiava una statua della dea addobbata da un ramo di vite ed era presente uno dei serpenti che venivano allevati nel tempio della divinità. Contrariamente ai giorni comuni, in cui era loro proibito bere, le matrone facevano libagioni di vino e il suo contenitore, coperto da un velo, era detto ‘vaso di miele’ mentre il liquido stesso era chiamato ‘latte’ per mascherarne la realtà. Si eseguivano musiche e danze e divertimenti di solito considerati adatti alle cortigiane e indegni per delle matrone.
Il mito e il rito. La dea a cui si ritiene fossero destinati tutti questi misteri sarebbe stata Fauna, di cui esistono due versioni del suo mito: in una sarebbe stata una rispettabile matrona che, di nascosto dal marito Fauno però, un giorno bevve del vino. Scoperta, sarebbe stata punita e uccisa dal consorte con un ramo di mirto. Questo, preso poi dal rimorso, l’avrebbe mutata in dea. In una seconda versione, la protagonista sarebbe invece figlia di Fauno, insidiata dal padre, quindi ubriacata e colpita con dei rami di mirto per la sua resistenza, vanificata poi dalla metamorfosi del padre in serpente con cui riuscì infine a possedere la giovane. Se sommiamo le due versioni, il mitema ottenuto è: dopo aver bevuto del vino, essere stata fustigata col mirto e, ma solo nel secondo caso, violata da un serpente, Fauna diventa una divinità (si dà per scontato questo finale anche nella seconda versione).
La deificazione era quindi il cardine della festa, riunendo i vari momenti del mito e del rito, possiamo comprendere la dissimulazione del vino, l’esclusione del mirto, la presenza del serpente rinchiuso in un cesto, inizialmente invisibile. Il momento cruciale della cerimonia è segnato dalle libagioni di vino, attraverso cui la dea s’impossessa delle sue adepte (la sua identità è confermata dal ramo di vite sulla statua), d’ora in poi lo si può chiamare col suo vero nome e le donne possono cantare e ballare. I falsi nomi dati al vino (miele, latte) sono simbolici e hanno riscontri in molte civiltà con il significato di bevanda divina, che nutre di sacro le donne che lo sorbono, bevanda iniziatica che le fa accedere a una nuova vita.
Ruolo del mirto e del serpente. Appare quindi il mirto nel rituale: è tramite esso che nelle donne s’infonde la dea, divenendo al contempo le due piante. La spiegazione è da ricercarsi nel periodo del rito, dicembre ovvero la fine dell’anno; questo è l’attimo in cui si celebra l’anno che sta per concludersi, si assiste a un momentaneo ritorno del caos precedente la civilizzazione, prima dell’inizio del nuovo anno. Analogamente ai riti carnevaleschi che fanno rivivere il caos, le matrone celebravano Bona Dea facendo tutto ciò che di solito era loro vietato: bere vino, fare musica e ballare. La notte tra il 4 e il 5 era la vigilia delle None, che segnavano l’apparizione del primo quarto di luna, simbolo di rinascita dopo la morte rappresentata dalla luna nuova. Ecco il senso del mirto nel mito: il sempreverde che, in quanto immortale, ridà la vita. La vite, apparente morta in inverno, è simbolo di Fauna flagellata che, dopo una morte simbolica, riceve una nuova esistenza, divina per di più, dato che Fauno la rende una dea.
Nel rito il mirto è inizialmente escluso dalla celebrazione, così come è dissimulato il vino. Quando decade il divieto di bere il vino, anche il mirto entra nel luogo di culto e dà alle celebranti una nuova vita, anche se quasi certamente non vi era una flagellazione, ma era anzi sufficiente un semplice tocco del mirto sacro per far nascere in esse una nuova vita, divina.
E il serpente? Aveva la stessa funzione del mirto e del vino: creatura tellurica in quanto vive nelle viscere della terra, era l’emblema animale della Grande Dea dei tempi arcaici, divinità ctonia perché la Terra è fonte di fertilità e vita, la sua muta lo rende un simbolo di rigenerazione; come gli altri due elementi era inizialmente dissimulato, chiuso nel cesto, quindi ne veniva estratto e probabilmente il gesto del toccarlo e farlo strisciare sul corpo stava a significare il dono della nuova vita, il sacro veniva trasmesso dalla figura divina a quella umana.
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