Sono sparita da questi schermi, c’è un personaggio che letteralmente scalpita per avere il suo momento di gloria (è un tipo piuttosto orgoglioso) e ho rivisto, non solo il piano editoriale del blog, ma tutta la programmazione dell’attività di Babacio… insomma, sono un attimo impegnata.
Scommettere che chiunque sia boss di se stess* viva momenti di ciclica crisi a suon di “starò andando bene?”, “sarà la scelta giusta?”, “dovrei fare così, o cosà?”… ecco, io tutti gli anni, puntualmente dopo Natale, mi ritrovo in questa palude insana di dubbi e incertezze.
Quest’anno sentivo però con sicurezza che, dopo più di un lustro sotto l’influenza dell’archetipo dell’Appeso, la ruota stava girando e un altro Arcano mi chiama oggi a gran voce (a tempo debito, rivelerò la sua identità, promesso): quindi, ho deciso di abbracciare la nuova via indicata, fare un bel ctrl+alt+canc e ripartire da lì.
Uno dei cardini di questo nuovo corso è che sento, dopo aver accumulato tante storie, di doverle osservare, smontare, analizzare, capire cosa è posticcio e tenere solo quello che serve. Un restauro, insomma.
E credo che ce ne sia davvero un gran bisogno, là fuori. Non tanto perché creda di poter illuminare nessun* con chissà quale sapienza, ma perché ogni giorno di più mi pare che le persone siano meno libere di interpretarsi la realtà che le circonda. Non è che non ne siamo capaci, ma ci dicono che non siamo abbastanza (studiat*, preparat*, adult*, espert*) per farlo.
Si è passati dal non essere autorizzati a leggere un testo sacro a non essere in grado di interpretare un manuale d’istruzioni.
Ma i miti e le leggende sono altro: parlano di noi, perché dovremmo avere una laurea per poterne discutere? Perché strappare i racconti folcloristici dal loro habitat naturale, nel mio caso le veglie notturne nelle stalle alpine piemontesi, e sterilizzarli dentro dibattiti e saggi accademici?
C’è un motivo se i racconti popolari venivano tramandati oralmente.
(Nella piccola nicchia valdese in cui sono cresciuta, per esempio, non regge la teoria dell’analfabetismo poiché la popolazione -che aveva accesso al testo biblico- sapeva leggere e bambini e bambine, a partire dall’Ottocento, frequentavano la scuola elementare.)
Semplicemente ci sono culture che, pur essendo estremamente progredite, scelgono di non adottare la scrittura.
La scrittura uccide, in certi casi, le storie. Le fissa, le rende immobili e incapaci di cambiare forma. Ma così si annulla uno dei poteri più grandi dei racconti: permettere di immedesimarcisi.
La narrazione orale, che non è mai uguale da una volta all’altra, può modificare il tono, i dettagli, a volte persino la vicenda per servire chi lo ascolta.
Per aiutare, chi lo ascolta.
La scrittura ha salvato le tradizioni e le storie antiche, ma non scordiamoci mai che si è salvato un racconto, non il racconto. Quello è ancora in grado di cambiare tutte le volte che ce ne sarà bisogno, senza paura di fare un torto a nessuno, ma anzi riuscendo a essere nuovamente dinamico, libero.
Vivo.
Ecco cosa sto facendo in questi giorni lontano dal blog: riscrivo storie.
E quando avrò finito, saranno libere di andare, di essere lette e, sì… cambiare nuovamente.
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