Divagazioni partendo dal concerto degli Heilung
Grazie alle scorse mail “retrospettive” dedicate al Giappone e al punk (ce n’è ancora una, ma per ora non spoilero nulla), ci siamo addentrati nel campo musicale e vorrei prendere la palla al balzo per raccontarti del concerto degli Heilung che sono andata a vedere a Milano il 9 dicembre.
Si tratta di un gruppo “folk sperimentale” -recita il web- danese, ma con molti componenti provenienti da altre nazioni. Perché dedicare un’intera newsletter a questo gruppo? Be’… loro sono molto particolari, a cominciare dai costumi che indossano sul palco (celebri sono i copricapi con palchi di cervo, accuratamente ispirati ai ritrovamenti archeologici della Preistoria), ma anche per la messa in scena dello show, dove compaiono guerrier* seminud* con scudi, lance e dal corpo nero di pittura (ispirati ai semi-leggendari Harii germanici, i guerrieri fantasma, ma anche alle truppe di Arminio che sconfissero le legioni romane nella celebre battaglia del Teutoburgo), e alberi -veri!- a comporre la scenografia… insomma tutto ciò non poteva lasciare indifferente un’appassionata di storia antica e folclore come la sottoscritta.
C’è inoltre da dire che per me i concerti sono davvero un’esperienza catartica, nel senso classico del termine greco, un “rito purificatore che libera corpo e anima da contaminazione” secondo Treccani, così come in ottica psicanalitica per cui la catarsi servirebbe ad allontanare i sentimenti pesanti (rabbia, tristezza) per ritrovarsi più leggeri…Si tratta, o no, di un rituale? Esiste un codice di comportamento (c’è che sta sul palco e chi no, si applaude in momenti precisi e si sta tutto sommato composti ad assistere), così come ci sono degli adepti/seguaci (i fan) che svolgono il ruolo di praticanti, con i loro balli, canti e costumi (e ti assicuro che osservare i look del pubblico degli Heilung già faceva parte dell’esperienza, tra corna, volti neri e trucco)! Pensa che i concerti sono chiamati dalla band stessa “rituals” e sono strutturati come una cerimonia vera e propria, con momenti di apertura e di chiusura.
Se ti ho incuriosito su Youtube è disponibile un’intero loro live.
Lo scopo di ogni concerto ben riuscito è quello di “tirare dentro” lo spettatore e la performance servirebbe ad alleggerirlo, banalmente, perché il focus è spostato da lui ad altro: da te che guardi > a X che performa. Una messa in scena che prevede alberi, tamburi, costumi, urla e chiasso (come non pensare al chiasso rituale del Carnevale) è qualcosa di molto simile a ciò che provava chi assisteva alle performance antiche in cui si ritualizzava la storia, più o meno recente, della comunità: da sempre il rituale è ciò che permette all’umano di imbrigliare il caos.
È la cultura che contiene la natura.
Ma è anche uno stato di equilibrio che oggi fatichiamo a trovare, perché la Performance non è più quella che andiamo ad assistere, ma piuttosto quella a cui la società ci chiede di prendere parte, di interpretare (di performare, appunto). L’ansia da prestazione esiste perché, in questi termini, non è mai previsto che la prestazione non sia alta.
La performance ritualizzata è catartica, quella personale totalizzante e, svolta 24h al giorno, distruttiva: la riflessione che vi lascio sul fare del Natale, periodo in cui la Natura ci insegna a rallentare (ricordandoci che il vero inizio dell’anno non è a gennaio, ma in primavera; l’essere umano a volte si rende ridicolo cercando di aggiogare il tempo, magari correndo impazzito tra freddo e malattie, per gli ultimi preparativi natalizi) è di prendervi del tempo per voi, scordare quell’occhio da Grande Fratello che ci fissa tutto il tempo -e che risiede solo nella nostra testa- e respirare, riposarvi. Magari ascoltare musica e ballare, meglio se in mezzo alla natura.
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