La maschera è uno di quegli oggetti-concetti su cui gli antropologi, e non solo, si sono soffermati a lungo e di cui non mancano certo i casi di studio. Sono manufatti profondamente simbolici, che si ritrovano nelle culture umane di tutto il globo come portatori di numerosi significati, anche molto diversi tra loro. Ciò che però accomuna le maschere, che assumono poi forme e realizzazioni declinate nelle specifiche realtà, è il fatto di stabilire tanto un rapporto con l’Alterità (viene rappresentato qualcosa che è decisamente diverso dalla persona che la indossa) e al contempo raffigura ed enfatizza l’Identità di chi la porta (il personaggio non è solo interpretato, ma letteralmente rivissuto): la maschera, pur agendo tramite il nascondimento dell’individualità, incarna la realtà stessa. Facciamo degli esempi pratici di questo potente e magico strumento nell’immaginario culturale europeo…
Smarrire la specificità. Gli animali alpini delle maschere -lupi, orsi, capre- hanno tratti esasperati che ne accrescono l’efficacia simbolica, poiché il loro compito è rendere visibili a tutti i pericoli che si annidano nella misteriosa forza della Natura, quello stato di caos che si viene a creare quando l’anno giunge agli sgoccioli. Anticamente per l’essere umano l’Ignoto era una zona indistinta in cui le dimensioni umane e animali sfumavano una nell’altra: era un territorio imprecisato, in cui si rischiava di smarrire la propria umanità, e le maschere animali erano lì a marcare il perimetro di questa minaccia. Le maschere animali rendevano visibili le forze normalmente invisibili e davano loro una concretezza a cui tutta la comunità poteva assistere e partecipare. Abbiamo osservato come l’uscita delle maschere fosse tipica dei momenti critici a cadenza ciclica del calendario e in Europa le più celebri erano quelle a ridosso del solstizio d’inverno, quelle che sfociano nell’odierno Carnevale e i cortei di fine estate (Halloween). Proprio analizzando lo spazio carnevalesco, mascherata tanto sentita da essere giunta fino a noi ancora in questa forma, possiamo fare alcune considerazioni: già per l’uomo greco indossare una maschera equivaleva a una rottura, un’uscita dalla propria dimensione individuale per vivere una follia ispirata o uno stato alterato opposto a quello della quotidianità; si tratta quindi di porsi in stretta relazione con lo stato sovrannaturale e con l’entità divina che la maschera rappresenta. Nel momento in cui la maschera viene indossata, chi la porta si trova esattamente di fronte al dio. Non solo, in quello stesso momento ci si ritrova ad essere contemporaneamente se stessi e l’altro e lo spazio che rende possibile il nesso alterità-identità dev’essere speciale, libero e diverso dal tempo quotidiano come, ad esempio, lo spazio carnevalesco.
L’evoluzione di Hellequin. La maschera carnevalesca più celebre è quella di Arlecchino, ma più osserviamo questo personaggio regredire nella storia, più ci accorgiamo di come i suoi tratti mutino verso l’animalità: dall’uomo bonario in abito a losanghe (forse variante del costume dell’uomo di stracci) al secentesco cavaliere in corredo guerresco, errabondo, sporco e accompagnato da un’inquietante schiera di bambini nati senza battesimo e giovani mascherati da bestie villose e cornute. L’aspetto zoomorfo dell’Hellequin più antico ci porta poi direttamente alle maschere zoomorfe medievali che rappresentavano il ritorno dei defunti nella dimensione umana, in un processo che favoriva la fertilità dei campi e la protezione degli antenati. In questo caso il senso del mascherarsi era anche cercare di rendere reciproco il rapporto tra vivi e morti: se gli spiriti potevano -nei periodi critici dell’anno- accedere all’Aldiqua, l’unico modo che i viventi avevano di connettersi attivamente ai defunti era interpretarli mediante la maschera, fino ad annullare completamente la propria componente umana. Le maschere mortifere carnevalesche rappresentano proprio le forze germinative che dagli inferi si propagano al mondo tangibile e il loro aspetto animalesco richiama l’archetipico stato vitale (caos primordiale) in cui generi e specie non erano ancora differenziate.
La masnada di Arlecchino. Pratiche e rituali che richiamavano un mitico periodo in cui umani e animali erano la stessa cosa, pervasi da un profondo animismo, erano naturalmente disapprovate dalla Chiesa medievale che accusava chi indossava un travestimento di nascondere la propria natura umana e allontanarsi dal Padre creatore: occultando il corpo, e soprattutto il viso, ci si confondeva con i bestiali esseri demoniaci (larvae). Proprio nel Medioevo il diavolo comincia a comparire nell’iconografia dotato degli attributi selvatici dei vari personaggi folclorici rappresentati dalle maschere come zampe, corna, coda e peluria; ad Arlecchino non tocca una sorte migliore se, ancora in epoca rinascimentale, nonostante egli apporti fortuna e fecondità, conserva un carattere inquietante e diabolico.
E che dire del corteo che lo segue? Storicamente ha un nome ben preciso, la Masnada Hellequini, e possiede anche una serie di tratti caratteristici come musica, danza e follia rituale: il corteo carnevalesco procede con attrezzi da cucina creando quanto più fracasso possibile, forse in aperto contrasto con la musica celestiale liturgica che proprio nel Medioevo inizia a essere codificata; le acrobazie dei giullari e le contorte e provocanti movenze delle danzatrici, valsero l’epiteto di “danza selvaggia”, rituale che nell’immaginario dell’epoca viene interpretato da Erodiade, divinità notturna che presiede al sabba e talvolta identificata come compagna stessa di Arlecchino. La follia rituale, infine, il cui scopo è rendere il rito un evento tangibile: la follia si accresce del piacere sensibile, nella provocazione del corpo, della sessualità, del riso e -quando la ragione cede al delirio- l’essere umano è riportato allo stato biologico iniziale. In questa dimensione primordiale si ritrova faccia a faccia col divino e, entrando in contatto con le forze naturali originarie, l’umano può divenire altro da sé e operare sul corso delle cose (si capisce bene come questo assunto fosse condannabile dalla Chiesa medievale, ma la critica a chi indossa la maschera è da far risalire addirittura al platonismo in quanto atteggiamento non razionale).
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