Nel precedente post abbiamo posto l’accento su come, nel culto degli alberi sacri che stiamo trattando dalla primavera scorsa, il vero principio vitale che permetteva il propagarsi della Vita attraverso la fertilità della vegetazione, e per estensione di uomini e animali, non fosse esclusivamente il Re del bosco, quanto piuttosto la divinità femminile e universale che immutabile ne accoglieva lo spirito fecondatore. La nostra analisi è partita dalla tesi di James Frazer, autore del celebre Il ramo d’oro, il quale osservò come ai primordi di molte mitologie europee si ponessero delle coppie divine…
Eredi al trono femminili. Il ragionamento di Frazer si estende poi su un’altra direttrice. A partire dall’esame dei primi re di Roma, lo studioso fa notare che nessuno di essi pare aver avuto il proprio figlio quale successore diretto ma di come, si pensa, si trattasse sempre di uomini che venivano dati in marito alla figlia legittima del reggente. Questo significherebbe che, almeno ai primordi della fondazione dell’Urbe, la legittimità al trono fosse trasmessa per linea femminile. “Se -aggiunge Frazer- fra i Latini, le donne di sangue reale rimanevano sempre in casa (nel senso che non si trasferivano presso la dimora della famiglia del marito dopo le nozze, ma avveniva semmai il contrario, ndr) e venivano date in spose a uomini di stirpe e, spesso, di nazionalità diversa, i quali regnavano poi in virtù di quel loro matrimonio, possiamo facilmente comprendere come mai degli stranieri sedessero sul trono di Roma; e, come mai, nell’elenco di re albani figurassero tanti nomi forestieri”.
Donne dal sangue blu. L’importante non era trasmettere la discendenza paterna, ma anzi che la dinastia regale venisse perpetuata in maniera vigorosa ed efficiente a prescindere dalle origini del marito. Frazer fa notare come si possano ritrovare residui di quest’usanza anche presso Greci e Norreni, ipotizzando così che in tempi davvero arcaici -per quelli che divennero poi i nostri progenitori- fossero considerate “le donne, e non gli uomini, come quelle nelle cui vene scorreva sangue blu”. Non dobbiamo dimenticare che una delle contese più celebri dell’umanità, quella che diede inizio alla guerra di Troia, non naque tanto per vendicare l’onta del tradimento di Elena, ma piuttosto perché era Elena stessa l’erede di stirpe regale e senza la regina al suo fianco Menelao non poteva avanzare diritti sul trono di Sparta (ecco perché era tanto importante riprendersela e soprattutto che non le accadesse nulla!).
Se poi l’idoneità del pretendente doveva misurarsi in base al suo vigore fisico, vengono subito alla mente le ben più tarde immagini cavalleresche medievali di due, o più, contendenti che si sfidano per avere la mano della dama… visione che forse dovremmo ricalibrare un po’ rispetto lo stereotipo della donna-oggetto per vederla sotto una nuova luce in cui l’oggetto vero diventa il maschio con la sua temporanea prestanza virile (da leggersi, in contesto primordiale, come fecondatore della Natura tutta). Questa ipotesi, lo abbiamo visto nello scorso post, è condivisa anche da Jacques Brosse il quale, analizzando soprattutto il contesto greco, individua la continua presenza di una stessa coppia divina che muta semplicemente nome al cambiare dell’etnia dominante sul popolo ma che è garante della perpetuazione della vita vegetale, animale e infine -grazie a ciò- anche quella umana.
L’epoca della donna. Il linguista Francisco Villar, nel suo libro Gli indoeuropei e le origini dell’Europa, cita l’epoca monarchica di Roma quando la successione per linea materna dei diritti regali era dovuta all’influenza del mondo etrusco. Gli Etruschi avrebbero infatti avuto un sistema sociale matrilineare e le donne avrebbero goduto di una posizione sociale eccezionalmente libera ed elevata (cosa che per gli storici romani era segno di corruzione e vita licenziosa, poiché i bambini non conoscevano il nome del padre ma solo della madre). Tutto questo è in linea con quanto accadeva nel resto dell’Europa neolitica, quella che a partire dagli studi di Marija Gimbutas si è iniziato a chiamare Old Europe, riferendosi alle popolazioni preindoeuropee del continente: tracce archeologiche di questa civiltà si riscontrano soprattutto nella valle del Danubio e nei Balcani, ma l’archeologa ha trovato elementi linguistici non indoeuropei anche -per quel che riguarda l’Italia- nel già citato etrusco, nel ligure, nel retico (area tirolese) e in Sicilia. Cosa contraddistingueva la civiltà preindoeuropea? Secondo Gimbutas si trattava di una società molto paritaria (detta gilania), lo si evince dalle sepolture che denotano uguali posizioni sociali, in cui la donna sceglieva liberamente uno o più compagni perché non serviva garantire la purezza della successione paterna… non esisteva quindi il concetto di adulterio! L’eredità veniva trasmessa per linea femminile in sintonia con la concezione degli dei e degli esseri soprannaturali: “la principale divinità era una divinità al femminile, la Grande Madre apportatrice della vita, assimilata alla terra che genera il frutto del raccolto, processo essenziale in una cultura agricola quale quella era. La maggioranza dei simboli (ritrovati su reperti archeologici*, ndr) sono associati alla terra umida, alle acque vivificatrici, agli organi femminili; si basano su elementi ciclici come la luna o il corpo della donna. È abbastanza verosimile che il nome, o uno dei nomi della Grande Dea della Vecchia Europa, per lo meno in Occidente, fosse Ana o Dana, sopravvissuto poi come epiteto di certe divinità femminili in diverse zone dell’Europa posteriore e già indoeuropeizzata (latino, messapico, celtico)”.
*Nella rappresentazione del ciclo vitale, era implicita l’idea della rigenerazione dopo la morte a immagine del seme piantato da cui rinasce un nuovo raccolto, per questo i sepolcri erano spesso di forma ovale, come già avevamo ricordato qui.
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